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Trattamento del tumore alla prostata


Il trattamento del carcinoma prostatico ha obiettivi diversi a seconda dell’estensione anatomica e dell’aggressività della neoplasia, ma anche della speranza di vita del paziente e della presenza di altre comorbidità che possono diminuire l’aspettativa di vita in maniera superiore rispetto al carcinoma prostatico stesso.

È importante sottolineare che circa il 40% dei pazienti in cui è stata diagnosticata una neoplasia prostatica andranno incontro a decesso per altri fattori, e non a causa del carcinoma prostatico.

Per questo motivo, tra le strategie terapeutiche per i pazienti con malattia in fase iniziale può anche essere presa in considerazione la cosiddetta vigile attesa. La scelta di una politica di vigile attesa ( watchful waiting ) può essere valutata nei pazienti che abbiano minore probabilità di morire per il loro tumore prostatico, sia per la relativa indolenza della malattia, sia per la relativamente breve speranza di vita ( inferiore ai 10 anni ) a causa dell’età avanzata o della presenza di comorbidità con più elevata letalità della stessa neoplasia prostatica; in questi pazienti, per i quali si ritiene che il trattamento immediato del tumore non sia in grado di modificare la reale speranza di vita, eventuali terapie sono dilazionate alla comparsa dei sintomi con finalità pressoché esclusivamente palliative.

Molto diversa è invece la politica della sorveglianza attiva, che si propone come procedura per dilazionare il trattamento locale nei pazienti con malattia più indolente finché la progressione tumorale non induca un cambiamento significativo nel fenotipo e nell’aggressività biologica della neoplasia, che pertanto sono monitorate con regolarità.

Questo tipo di atteggiamento può essere rivolto a pazienti con neoplasia prostatica limitata alla prostata e ben differenziata, con minimo volume tumorale e bassi livelli di PSA. Questi pazienti devono tuttavia essere sottoposti periodicamente a verifica del PSA e a ripetizione delle biopsie prostatiche presso Centri con adeguata esperienza.

I trattamenti che possono essere utilizzati nell’iter terapeutico dei pazienti affetti da carcinoma prostatico sono numerosi e comprendono: la chirurgia, la radioterapia, l’ormonoterapia e la chemioterapia.
Queste diverse opzioni terapeutiche possono essere utilizzate o come unica soluzione o in combinazione tra loro, a seconda dello stadio della malattia.

Chirurgia

La rimozione chirurgica della prostata, delle vescichette seminali e del tessuto circostante sufficiente per ottenere margini chirurgici negativi, è definita prostatectomia radicale.

Diverse sono le modalità con cui può essere eseguito tale intervento: a cielo aperto, per via laparoscopica e/o robot-assistita.
Le tre tecniche si equivalgono in termini di efficacia, anche se la via laparoscopica e le tecniche robotizzate sembrano garantire minori effetti collaterali.
La scelta del tipo di procedura da utilizzare è legata soprattutto all’esperienza dell’equipe urologica di riferimento.

L’intervento di prostatectomia può essere preceduto dall’asportazione dei linfonodi pelvici se le caratteristiche della malattia depongono per un rischio sufficientemente elevato di metastasi linfonodali.
La prostatectomia radicale è un intervento di chirurgia maggiore e come tale non scevro da complicanze, sia intraoperatorie che postoperatorie. Tra quest’ultime, le più frequenti sequele postoperatorie tardive sono rappresentate dall’incontinenza urinaria e dall’impotenza sessuale.
L’intervento chirurgico di prostatectomia radicale è indicato principalmente in pazienti affetti da neoplasia confinata alla prostata, con adeguata aspettativa di vita valutata in base all’età e alle comorbidità, e senza controindicazioni alla chirurgia.

Radioterapia

Per radioterapia si intende un trattamento eseguito con radiazioni ionizzanti mirato a un determinato organo o sede anatomica.
Nel trattamento del carcinoma prostatico la radioterapia può avere diverse finalità: radicale, adiuvante, di controllo della malattia e sintomatico.

La radioterapia con intento radicale può essere eseguita utilizzando due tecniche differenti: la radioterapia a fasci esterni e la brachiterapia.

La radioterapia a fasci esterni consiste nell’utilizzo di una macchina, chiamata acceleratore lineare, che produce raggi X che vengono convogliati sulla ghiandola prostatica.
Le tecniche attualmente più utilizzate sono la 3D-CRT ( Three Dimensional Conformal Radiotherapy ) e la IMRT ( Intensity Modulated Radiotherapy ).
Queste tecniche innovative permettono l’utilizzo di dosi più elevate di radiazioni ionizzanti somministrate sul volume bersaglio, riducendo il più possibile la quota di radiazioni nei tessuti circostanti dove possono causare effetti tossici.

Le complicanze più frequenti legate al trattamento radioterapico a fasci esterni sono la cistite ( infiammazione della parete vescicale ) e la proctite ( infiammazione del retto ), per lo più reversibili, conseguenti all’effetto della radioterapia sugli organi adiacenti al volume di irradiazione.
Una sequela a lungo termine è invece rappresentata dall’impotenza sessuale: è stato riscontrato in diversi studi clinici che la potenza sessuale decresce gradualmente negli anni successivi al trattamento radiante.

Questo tipo di radioterapia con intento radicale è indicato nei pazienti con malattia confinata alla prostata, con aspettativa di vita adeguata e in assenza di controindicazioni.

Per efficacia equivale sostanzialmente al trattamento chirurgico, pertanto nella scelta del tipo di trattamento da eseguire è importante che la discussione del caso venga fatta da un’equipe multidisciplinare in cui urologi, radioterapisti e oncologi possano definire il programma terapeutico migliore per ogni singolo paziente, così come è importante che il paziente sia edotto sui possibili effetti collaterali dei due trattamenti per poter scegliere, anche sulla base di ciò, quale tipo di approccio terapeutico preferire.

La brachiterapia consiste invece nel localizzare all’interno della prostata la fonte delle radiazioni. Questa è rappresentata da piccole barre metalliche, dette semi, che vengono posizionate, tramite l’utilizzo di aghi sottili e sotto guida ecografica, all’interno della ghiandola prostatica dove rimangono per tutta la vita.
Tale tecnica può essere considerata un’alternativa alla chirurgia e alla radioterapia a fasci esterni in un gruppo selezionato di pazienti con prostata relativamente piccola ( inferiore o uguale a 50 ml ) e con neoplasie in stadio iniziale.

Anche gli effetti collaterali della brachiterapia sono rappresentati principalmente da cistite e proctite, ma di entità minore rispetto alla radioterapia a fasci esterni.

I trattamenti locoregionali sono indicati nel trattamento della malattia limitata alla prostata.
Quando la neoplasia è più estesa, si parla di malattia extraprostatica. In questo ambito il trattamento da prediligere è un trattamento combinato di radioterapia a fasci esterni associato a terapia ormonale con farmaci chiamati LH-RH analoghi agonisti o antagonisti.

La radioterapia a fasci esterni può essere utilizzata anche a scopo adiuvante. Con questo termine si indica il trattamento radioterapico eseguito dopo l’intervento chirurgico, a completamento di esso.
La radioterapia adiuvante è indicata nei pazienti sottoposti a intervento di prostatectomia radicale e che presentano un rischio elevato di recidiva di malattia per la presenza, all’esame istologico, di estesa e completa penetrazione capsulare, di infiltrazione delle vescichette seminali, e di positività dei margini chirurgici.
Nel caso di pazienti sottoposti a prostatectomia radicale e che nel corso dei controlli successivi presentino un incremento significativo dei valori del PSA ( la cosiddetta recidiva biochimica ), la radioterapia può essere utilizzata come procedura di salvataggio.
In questi casi viene irradiata la loggia prostatica, con lo scopo di ottenere il controllo locale della malattia.
La stessa tecnica può essere utilizzata nel caso di una recidiva locale di malattia, ossia la presenza di tessuto solido nella sede dell’intervento di prostatectomia evidenziato con indagini strumentali, quali risonanza magnetica ( RM ) o tomografia a emissione di positroni con Colina ( PET-Colina ). In questo caso, il trattamento radiante oltre che alla loggia prostatica ( e quando necessario alla pelvi ) deve essere particolarmente mirato alla recidiva.
Spesso il trattamento radiante viene utilizzato in questi casi insieme alla terapia ormonale.

Ormonoterapia

La crescita del carcinoma prostatico è sostenuta dal testosterone, per cui il trattamento farmacologico cardine è basato sulla riduzione dei livelli circolanti di testosterone. Questo si può ottenere o con l’intervento chirurgico di orchiectomia ( asportazione dei testicoli ) oppure con la somministrazione di farmaci chiamati LHRH analoghi agonisti ( Leuprorelina, Goserelina, Triptorelina ) o antagonisti ( Degarelix ), che agiscono bloccando la sintesi del testosterone a livello dei testicoli.
Questa strategia viene chiamata deprivazione androgenica.

Gli LHRH analoghi sono indicati in diverse fasi della malattia e possono essere utilizzati da soli o in associazione ad altri farmaci, in associazione alla radioterapia o dopo chirurgia a seconda dell’indicazione per cui vengono somministrati.
La deprivazione androgenica è infatti indicata come trattamento adiuvante dopo l’intervento chirurgico di prostatectomia qualora l’esame istologico mostri la presenza di metastasi nei linfonodi asportati.
Come precedentemente descritto, nel trattamento della neoplasia extraprostatica la somministrazione di LHRH analoghi è indicata in associazione alla radioterapia a fasci esterni, in quanto diversi studi hanno dimostrato una maggiore efficacia della terapia combinata rispetto alla sola radioterapia o alla sola terapia ormonale.
La deprivazione androgenica è infine il trattamento di prima scelta nella malattia metastatica, ossia nella malattia che si è diffusa ad altri organi; in questa fase la terapia con LHRH analoghi deve essere proseguita anche se la malattia progredisce, quando sarà necessario associare altri farmaci attivi nel trattamento del carcinoma prostatico.
Gli analoghi agonisti o antagonisti dell’LHRH vengono somministrati per via intramuscolare o sottodermica a cadenza mensile o trimestrale.
Gli effetti collaterali principali sono rappresentati da: vampate di calore, impotenza sessuale, anemia, stanchezza, osteoporosi, e incremento dei valori di colesterolo, trigliceridi, glicemia e circonferenza addominale che determinano un quadro definito come sindrome metabolica responsabile di un aumentato rischio di complicanze cardio-vascolari, soprattutto nei pazienti già affetti da problemi cardiocircolatori.
Anche se non è ancora stato dimostrato che il trattamento prolungato con questi farmaci possa aumentare la mortalità per cause cardiovascolari, i pazienti più a rischio dovrebbero essere monitorati con molta attenzione anche da questo punto di vista.

Un’altra importante categoria di farmaci ormonali è rappresentata dagli antiandrogeni ( Bicalutamide, Flutamide, Ciproterone acetato ), i quali sono in grado di impedire il legame degli androgeni circolanti con i recettori espressi dalle cellule tumorali.
Esiste infatti una quota di androgeni che non è inibita dalla deprivazione androgenica e che può quindi alimentare le cellule neoplastiche di origine prostatica.
Questi farmaci vengono somministrati per via orale, spesso in associazione a LHRH analoghi, e in alcuni casi anche in monoterapia.
L’effetto collaterale tipico di questa classe di farmaci è la ginecomastia, ossia l’aumento volumetrico delle mammelle nel maschio, spesso associato a dolore.

Di recente introduzione nel bagaglio delle terapie ormonali sono inoltre due nuovi farmaci: Abiraterone acetato ed Enzalutamide.
Si tratta di due terapie orali, entrambe utilizzate in fase metastatica, che agiscono però con meccanismi d’azione differenti: l’Abiraterone acetato inibisce un enzima chiave della sintesi degli steroidi a livello delle ghiandole surrenaliche determinando una diminuzione dei livelli dei precursori del testosterone, e l’Enzalutamide, un antiandrogeno di nuova generazione che ha maggiore affinità per il recettore androgenico rispetto agli antiandrogeni di prima generazione e che è capace inoltre di prevenire il passaggio del recettore all’interno del nucleo delle cellule neoplastiche.
Gli effetti collaterali più frequenti di Abiraterone sono la stanchezza, il dolore alle articolazioni, nausea, stitichezza, ritenzione idrica e alterazione dei valori di sodio e potassio nel sangue: per diminuire questi ultimi effetti collaterali, l’Abiraterone deve essere somministrato in associazione a basse dosi di Cortisone.
L’Enzalutamide causa soprattutto affaticamento.
È importante sottolineare come entrambi i farmaci aumentino il rischio di complicanze cardiovascolari, per cui è sempre importante la valutazione cardiologica durante questi trattamenti.

Chemioterapia

Il carcinoma prostatico è stato considerato a lungo una neoplasia poco chemiosensibile. Questo concetto è stato superato all’inizio degli anni 2000 con la dimostrazione che il Docetaxel, un chemioterapico appartenente alla classe dei taxani, ha dimostrato di aumentare la speranza di vita nei pazienti metastatici.
Attualmente pertanto il Docetaxel è indicato nella fase metastatica quando la malattia non risponde più al trattamento ormonale.

Un altro chemioterapico che ha dimostrato di essere efficace nel trattamento del carcinoma prostatico è il Cabazitaxel, un farmaco appartenente anch’esso alla classe dei taxani, che ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza nei pazienti con malattia metastatica precedentemente trattati con Docetaxel.

La tossicità di questi trattamenti è molto diversa da quella osservata nella terapia ormonale, e caratterizzata soprattutto dalla tossicità ematologica, che si esprime maggiormente con una diminuzione dei valori dei globuli bianchi.
È importante pertanto durante il trattamento chemioterapico eseguire controlli costanti degli esami del sangue.
Un altro effetto collaterale tipico di questa classe di chemioterapici è l’alopecia, che compare dopo le prime somministrazioni ma che è reversibile alla sospensione del trattamento.
Si possono inoltre manifestare nausea, vomito, diarrea, ritenzione idrica, perdita dell’appetito e alterazioni delle unghie.
È pertanto importante che il paziente riferisca al proprio oncologo curante l’eventuale comparsa di tali disturbi in modo che possano essere gestiti al meglio così da ottenere una buona tolleranza al trattamento.

Trattamento delle metastasi ossee

Il tessuto osseo è la sede più frequente, e a volte esclusiva, delle localizzazioni secondarie da neoplasia prostatica.
Il trattamento specifico delle metastasi ossee, avente come scopo il controllo del dolore e la prevenzione o ritardata comparsa delle complicanze scheletriche, riveste quindi una particolare importanza in questa patologia.
Le possibilità terapeutiche esistenti comprendono l’utilizzo di farmaci osteoprotettori ( disfosfonati, inibitori di RANKL ) e l’utilizzo della terapia radiometabolica, senza trascurare l’importanza della terapia oncologica primaria e dell’approccio multidisciplinare nella gestione di questi pazienti.

Difosfonati e inibitori di RANKL - I difosfonati sono in grado di inibire, attraverso diversi meccanismi, l’azione degli osteoclasti, cellule deputate al riassorbimento dell’osso.
Tra i disfosfonati attualmente disponibili in commercio, l’Acido Zoledronico è il più potente. L’Acido Zoledronico, in associazione al trattamento oncologico di base, ha dimostrato di ridurre la comparsa di complicanze scheletriche e di migliorare il controllo del dolore.
La dose raccomandata è 4 mg in infusione endovenosa della durata di 15 minuti ogni 28 giorni.
La somministrazione di Acido Zoledronico non risulta comunque scevra di effetti collaterali, in particolare l’effetto più comunemente associato è una sindrome simil-influenzale caratterizzata da dolore alle ossa, febbre, affaticamento e brividi. Inoltre, sotto l’azione del farmaco la calcemia può diminuire fino a livelli di ipocalcemia ( asintomatica ), per cui è raccomandata la supplementazione con Calcio per via orale e Vitamina D. Durante il trattamento con Acido Zoledronico si può anche osservare un peggioramento della funzionalità renale, per cui è necessario verificare i livelli sierici di creatinina del paziente prima della somministrazione di ciascuna dose di Acido Zoledronico. Un altro importante possibile effetto collaterale è l’osteonecrosi mandibolare, una patologia infettiva e necrotizzante a carattere progressivo. Le misure preventive in grado di ridurre il rischio di osteonecrosi mandibolare comprendono l’effettuazione di una radiografia ortopantomografia e di una visita odontoiatrica di routine prima di programmare la terapia con difosfonati, con l’indicazione a rimandare la terapia fino a che l’eventuale bonifica dentale non sia stata completata, e la sospensione del trattamento per un periodo di tempo adeguato in caso di intervento chirurgico elettivo dentale di tipo invasivo in corso di terapia; ovviamente, sono essenziali i controlli periodici.

Denosumab è invece un anticorpo monoclonale che inibisce la proteina RANKL, interferendo con la maturazione degli osteoclasti e determinando in questo modo una inibizione del riassorbimento osseo.
Anche questo farmaco si è dimostrato efficace nel prevenire la comparsa di complicanze scheletriche nei pazienti con metastasi ossee.
Il Denosumab viene somministrato per via sottocutanea alla dose di 120 mg ogni 28 giorni.
A differenza dell’Acido Zoledronico, non determina complicanze a livello della funzionalità renale, mentre più frequentemente rispetto ai difosfonati è responsabile della comparsa di ipocalcemia e di osteonecrosi della mandibola, per cui anche durante la somministrazione di questo farmaco è raccomandata la supplementazione con Calcio e Vitamina D e un’attenta valutazione odontoiatrica prima dell’inizio del trattamento.

Terapia radiometabolica - Una opzione appropriata per i pazienti con malattia sintomatica e diffusa a più sedi scheletriche è la terapia radiometabolica. I radiofarmaci più utilizzati in passato sono stati i difosfonati marcati con Samario ( 153Sm ) o con Stronzio ( 89Sr ), che hanno dimostrato buona efficacia come trattamento palliativo del dolore in pazienti con metastasi ossee multiple.

Recenti sono i risultati di uno studio che ha valutato l’efficacia di un nuovo radiofarmaco, il Radium223 ( Radio-223 cloruro ), nei pazienti con neoplasia prostatica e metastasi ossee sintomatiche, resistente ai precedenti trattamenti ormonali.
Questo radiofarmaco ha dimostrato di riuscire ad aumentare la sopravvivenza dei pazienti trattati, ed è stato per questo registrato come nuovo trattamento disponibile nell’ambito della neoplasia prostatica con metastasi ossee.
Il Radium223 presenta un ottimo profilo di tollerabilità di questo farmaco che è responsabile di una riduzione dei valori dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine meno frequentemente rispetto ai trattamenti radiometabolici del passato; tali valori devono comunque essere monitorati. ( Xagena2015 )

Fonte: Carcinoma della prostata Informazioni per i Pazienti - AIOM, 2015

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